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mercoledì 30 gennaio 2008

Recensione: Quei bravi ragazzi


Titolo originale: Goodfellas


Genere: drammatico


Regista: Martin Scorsese


Stati Uniti 1990




Il giovane Henry ha un sogno:
diventare un gangster.
Il suo desiderio si avvererà grazie ai furti e al contrabbando compiuti con gli inseparabili amici Jimmy e Tommy al suo fianco, la banda dei “bravi ragazzi”.
Raggiungerà il benessere, ma dovrà convivere con i rischi che la sua attività comporta fino a prendere, costretto dagli eventi,
una decisione dolorosa.









"Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster"


Henry Hill (Ray Liotta)




Questo mi mancava!
Non sto a ripetere quanto mi piacciano i film di mafia, passiamo oltre.

Questo film ha poco in comune con titoli quali la saga del Padrino
e Scarface: meglio così.
Si tratta di prodotti diversi tra loro ma egualmente capolavori.





Non è un film patinato, bensì quasi
un documentario sulla vita di Henry Hill (Ray Liotta), un giovane italo-irlandese con l’ambizione di diventare gangster.
Ci riuscirà, dopo essersi "rimboccato
le maniche", grazie anche all’aiuto
dei due amici, Jimmy (Robert De Niro)
e Tommy (Joe Pesci).


La vita da gangster però non è tutta
"rose e fiori", e Henry dovrà confrontarsi con la brutalità dei compagni, in particolare di Tommy,
che più volte perderà il controllo commettendo evitabili delitti.
Henry non ama la violenza gratuita,
e osserva più volte con sguardo quasi ingenuo il comportamento dei due amici, per niente "preoccupati"
di commettere efferati (e a volte gratuiti) crimini.


Ma in fin dei conti il sangue versato
è una inevitabile "conseguenza" del mestiere,
e Henry non può fare altro che convivere
con la violenza, del resto se non vuole fare
una vita “normale” e mediocre (come dice
all’inizio del film) non ha altre vie per raggiungere il benessere.


Nel frattempo conosce quasi casualmente Karen, se ne innamora e la sposa.
Karen è consapevole dell’attività del marito,
ma tutto sommato le sta bene così.
La situazione prenderà una brutta piega
quando Henry si farà un’amante: l’equilibrio familiare incomincerà
a scricchiolare.


Nel frattempo in un’escalation di violenza
la banda entra nel traffico degli stupefacenti;
per Henry si concretizzeranno materialmente
i rischi della sua attività: verrà arrestato e una volta uscito dal carcere le cose non saranno mai più
come prima.


Il mondo del crimine è cambiato,
o forse Henry scoprirà un lato che fino
a quel momento gli era rimasto nascosto: i “bravi ragazzi” incominciano a diffidare l’uno dell’altro, e le amicizie scricchiolano sempre di più.


Il sogno di gloria si trasformerà in un incubo:
la sua vita verrà stravolta dalla cocaina,
della quale oramai è dipendente, dalla morte
di £$%& (non mi sembrava giusto fare il nome),
ucciso per vendetta, e da un nuovo arresto.


Qui di seguito rivelerò il finale del film: magari per non rovinarvi
la sorpresa saltate oltre.



Questa volta per lui c’è solo una via d’uscita: cantare. Confessare è sinonimo
di tradire gli amici, ma in fondo non c’è via d’uscita. Questo perché quegli amici
lo vogliono fare fuori, dato che di lui non si fidano più.
Tommy farà i nomi, sarà costretto a cambiare vita e, protetto dall’FBI,
fuggirà lontano con la moglie e famiglia.
Un finale molto amaro. Tommy sarà costretto a vivere una vita “normale”,
quel tipo di vita tanto odiato.
Ma, in fondo, meglio una vita normale che riposare sottoterra…



Quei bravi ragazzi è un film corale.
Protagonista indiscusso è il bravo
Ray Liotta, credibile nel ruolo
del criminale che di fronte alla violenza manifesta quasi ingenuo stupore, affiancato dai grandi De Niro
e Joe Pesci (oscar come migliore attore non protagonista per una nevrotica interpretazione, davvero grande), dalla moglie Lorraine Bracco e da una serie di attori con un ceffo che inevitabilmente richiama
le origini italiane.
Alcuni di questi li ritroveremo (Lorraine Bracco se non erro interpreta
una psicologa) nella serie TV di grande successo I Soprano, con al centro
le vicende di una famiglia mafiosa (tanto per cambiare).


Scorsese ci regala un grande film, con taglio documentaristico:
trent'anni di omicidi, contrabbando, spaccio, rapine, omicidi, carcere
ma anche pranzi, feste, mogli, figli, amanti.


Un film che non esalta più di tanto
le figure dei gangster protagonisti:
il loro è un successo effimero, che può svanire da un momento all’altro.
Il loro destino può essere molto beffardo, dal momento in cui che può essere
quello che credevi il migliore amico
a spararti (magari pure alle spalle).
La loro è un vita felice fino a un certo punto, ma poi la fortuna passa
a chiedere il conto e si piglia pure interessi molto salati.
E’ una vita solida come un castello di carte.
Nel caso migliore si torna a un’esistenza normale ma mediocre,
nella maggior parte dei casi si finisce sei piedi sotto.


Insomma, è davvero un film concreto e realista, con un protagonista credibile, non proprio un “numero uno” (come Michael Corleone o Tony Montana). Non un film sulla mafia, ma sulla realtà della mafia (questa frase non l'ho scritta di mio pugno ma l'ho trovata sulla rete e mi è sembrata un ottimo sunto del film)



Voto Finale: 10 e lode



Scheda dell'IMDb


martedì 29 gennaio 2008

Recensione: Kairo (Pulse)



Genere: horror
(ma non troppo)

(poco splatter)

Regista: Kiyoshi Kurosawa


Giappone 2001



Michi, preoccupata per la sparizione di un collega, lo cerca a casa
e assiste impotente al suicidio.
In un floppy disk c’è la strana immagine del collega impietrito
che fissa un monitor.
Michi decide di indagare.

Altrove uno studente installa nel PC Internet, ma il computer non risponde ai suoi comandi: la connessione si avvia automaticamente
e sul monitor appaiono immagini di persone sole in una stanza buia
anche loro fisse davanti al monitor.
Molte persone scompaiono misteriosamente, ed una spirale di suicidi sconvolge la città e dintorni: cosa sta succedendo?









Si può essere soli anche dopo la morte?




Molte volte ho scoperto bellissimi film grazie alle segnalazioni
(o ai DVD allegati) della competente rivista Horror Mania.
Questa volta non fa eccezione.


Kairo (in occidente conosciuto come Pulse) veniva definito
un capolavoro, un film decisamente superiore ai vari The Ring,
The Grudge
, The Eye e compagnia bella, gli horror asiatici che oggi pare siano un po’ in difficoltà (vi dirò francamente: hanno rotto).
Le opinioni dei critici sulla rete confermavano l’entusiasmo attorno
a quest’opera.
Gli spettatori hanno accolto un po’ più freddamente questo lavoro,
pur considerandolo superiore alla media.






Devo subito avvisare chi si aspetta una scossa d’adrenalina da questo film: lasciate perdere. Il ritmo non è il suo forte.

Abbiamo di fronte un horror “sociale”, ovvero un film che va al di là
dello spavento immediato e gratuito, ma vuole lasciare nello spettatore qualcosa, vuole portarlo a riflettere, a pensare, perché no a comportarsi diversamente dopo la visione.


Kairo è un film pessimista. E’ triste. E’ malinconico.
Non è il tipo di film che vi consiglierei di guardare se state passando
un brutto momento…


La solitudine e l’incomunicabilità sono al centro della storia raccontata
dal bravo Kurosawa.


L’incomunicabilità, proprio durante l’era delle nuove tecnologie.
Un bel controsenso, se ci pensate.
In fondo il regista ha ragione:
con Internet possiamo comunicare
con persone che abitano a migliaia
di chilometri lontano da noi,
quando magari non facciamo nemmeno
due chiacchiere con il vicino di casa (semplifico un po’ ma in fondo è così).


E’ un film dai colori spenti, grigio, dai suoni acuti e pungenti,
con scenografie in bilico tra luci e ombre.
Insomma, per essere breve: il regista ci sa fare.


Il film scorre su due binari, destinati ad incrociarsi nel finale.


Da una parte c’è Michi che,
dopo il suicidio del collega,
assiste impotente al comportamento
sempre più strano delle persone
che lavorano con lei.
Dall’altra c’è il giovane Kawashima che, poco pratico di informatica, non riesce
a capire cosa stia trasmettendo
il suo monitor, e decide di indagare con l’aiuto di Harue
(spero di non avere fatto confusione con 'sti nomi giapponesi!).


Nel frattempo alcune persone spariscono, altre si suicidano inspiegabilmente, dissolvendosi come ombre, altre sigillano
le porte e le finestre delle loro case
con un nastro rosso, delimitando i confini della “stanza proibita”.


Come si è diffuso questo fenomeno? Tramite il web?
Forse sì, forse no, Kurosawa
non ce lo dice.
Le sagome che appaiono dentro
le “stanze proibite” sono fantasmi
o sono reali?
Anche qui non c’è una risposta.


Avrete capito che alla fine del film qualche domanda rimane in sospeso, ma tutto sommato non importa. Perché in fondo questo film
è una metafora. E’ la rappresentazione della vita nelle metropoli (e non solo); dove vivono sì milioni di persone,
ma per la maggior parte sole.
Conosciamo veramente le persone che vivono al nostro fianco?
Quando si può parlare di “amici”?


Nel film non c’è molta differenza tra i fantasmi
e i vivi.
I fantasmi (quando erano vivi) hanno deciso
di chiudere la loro esistenza con il suicidio: sfortunatamente per loro la solitudine
è eterna, e va al di là della morte.
Ma nemmeno i vivi se la passano bene:
alla ricerca di una speranza, vagano in mezzo
al nulla (bellissimi e molto tristi i minuti finali), un viaggio disperato probabilmente senza meta.


Kurosawa ci regala diverse perle.


Innanzitutto le apparizioni: le movenze delle sagome dei fantasmi sono sgraziate, innaturali, inquietanti
(mi ricordano un po’ le infermiere
di Silent Hill), e quando le vittime stanno per vedere le loro facce… Kurosawa si ferma lì. Non ci mostra deformità o mostruosità gratuite,
e fa bene.
Non ci sono bambine incazzate con i capelli corvini lungi sul volto.
Data la mia poca simpatia nei confronti di questi horror orientali, lasciatemi gridare: evviva!!!


Efficaci le scenografie: stanze vuote ed impersonali, edifici fatiscenti, fabbriche abbandonate.
Una Tokio lontana dalla frenesia e dalla confusione del traffico.
Vuota. Desolatamente deserta.


Poi la seconda parte è a dir poco apocalittica.
I nostri protagonisti vagano in una città deserta, alla ricerca di qualcuno, ma non riescono nemmeno a farsi forza tra loro. E’ bellissimo il dialogo nella metropolitana tra il giovane (e ottimista, anche se la realtà lo sta
scoraggiando) Kawashima e l’amica (pessimista e disfattista) Harue.




Lei si lamenta della solitudine che oramai li circonda, non c’è più nessuno attorno a loro, sono tutti scomparsi; lui la incoraggia, dicendole
più o meno “Non preoccuparti di chi non c’è, pensa che ci sono io
al tuo fianco, dobbiamo farci coraggio tra di noi, pensare a chi rimane, non a chi se n’è andato
”. Ma non c’è niente da fare, il pessimismo trionfa.


Devastanti gli ultimi minuti (se avete intenzione di guardare il film magari saltate le prossime righe, passate alla conclusione): decine e decine di morti lungo le strade,
il cielo sempre più buio e scuro,
l’aereo che precipita, il viaggio finale, attraverso l’oceano, alla ricerca di qualche sopravvissuto… sono sfuggiti all’apocalisse, ma possiamo definirli fortunati?
Io non me la sento.


In conclusione lo giudico un horror superiore alla media,
un film spirituale, metafisico: amaro, infelice, senza speranza,
la sua visione lascia decisamente l’amaro in bocca.


Ma vale la pena guardarlo.


E riflettere un poco.


PS: del remake USA non parlo... un pò perchè non l'ho visto,
un pò perchè... da quello che ho letto, è meglio sorvolare...



Voto Finale: 10
(forse non raggiungerà la lode; forse, come spesso capita,
sono stato troppo buono, ma vale la pena dargli un'occasione)



Scheda dell'IMDb


mercoledì 23 gennaio 2008

E' morto Heat Ledger



Mentre ero seduto a tavola e distrattamente ascoltavo i titoli di apertura del tg una drammatica notizia mi ha colpito: Heat Ledger è morto.



L'attore, 28 anni, è stato trovato senza vita in un appartamento
di New York.


Come da consuetudine sono diverse le ipotesi su cosa abbia causato
il decesso: mi chiedo oramai che importanza abbiano questi interrogativi, quello che purtroppo conta è che una giovane vita è stata spezzata.


Certo quando vengono a mancare queste celebrità (soprattutto giovani)
si rimane con l'amaro in bocca: penso a Pantani, al calciatore Puerta,
a Freddie Mercury, a Lady Diana, a Anne Nicole Smith (tutti casi differenti tra loro, sia chiaro, ma di fronte alla morte...): forse siamo convinti
che queste persone "privilegiate" abbiano anche il dono dell'immortalità...
la loro scomparsa per noi "comuni mortali" è sempre un brutto risveglio.


Avevo apprezzato le interpretazioni di questo giovane attore in due film non celebrissimi (del resti era agli esordi):
Il destino di un cavaliere
e
La setta dei dannati.


Questo era il suo momento d'oro:
il successo avuto con I segreti
di Brokeback Mountain
l'aveva consacrato nell'Olimpo delle Star
(aveva pure sfiorato l'Oscar).


Il suo ultimo lavoro è stato
The Dark Knight, il sequel di Batman Begins, sempre diretto da Cristopher Nolan, dove interpreta il Joker.
Le immagini e i filmati visti mi avevano fatto ben sperare,
l'impressione era che si fosse calato molto bene nel ruolo del cattivo.



Ma questi discorsi sul successo, sulla carriera, sui film e sulle capacità recitative hanno davvero poco senso, di fronte ad una scomparsa
così tragica... che lascia davvero senza parole.

martedì 22 gennaio 2008

Recensione: A Bittersweet Life



Titolo originale: Dalkomhan Insaeng


Genere: thriller


Regista: Kim Jee-Woon


Corea del Sud 2005



Sun-Woo gestisce magistralmente
un hotel, ed è l’uomo di fiducia
del malavitoso Kang.
Questi gli chiede di pedinare
la sua fidanzata, e di ucciderla
qualora lei si dimostri infedele.
Scoperto il tradimento della ragazza Sun-Woo non riesce a ucciderla, tradendo per la prima volta la fiducia del suo capo.
La punizione del boss sarà dura. Altrettanto spietata sarà la vendetta

di Sun-Woo.









Kang, il Boss: “Puoi far bene mille cose, ma basta un solo errore
per mandare a puttane anni di lavoro



Una notte d’autunno il discepolo si svegliò piangendo.
Il maestro vedendolo gli domandò: “Hai avuto un incubo?
No
Hai fatto un sogno triste?
No maestro - rispose il discepolo - ho fatto un sogno bellissimo
E allora perché stai piangendo?
E il discepolo, asciugandosi le lacrime, disse: “
Perché so che il sogno
che ho fatto non potrà avverarsi. Mai





Mi era bastato vedere il trailer per capire che mi sarei innamorato
di questo film.


A Bittersweet Life, è evidente, è debitore dei lavori di Tarantino
e di Park Chan-Wook.
Il primo lo conoscete tutti. Non so se dire la stessa cosa del secondo.
Comunque se volete saperne di più vi invito calorosamente a leggere le mie appassionate recensioni delle pellicole della Trilogia della Vendetta: Mr. Vendetta - Sympathy for Mr. Vengeance, Old Boy
e Lady Vendetta - Sympathy for Lady Vengeance.


Se A Bittersweet Life fosse uscito prima di Pulp Fiction e Old Boy (non me ne vogliano gli altri due lavori di Park, ma OB è geniale)
i critici starebbero parlando di un capolavoro assoluto.
Ma questa in fondo non è una colpa, non mi sembra giusto accusare
Kim Jee-Woon di poca originalità come ha fatto qualche recensore,
liquidando tiepidamente questo film come un prodotto fotocopia di altri.
Il regista attinge sì dai registi citati precedentemente, ma lo fa

alla grande.


Quello che risalta subito è l’eleganza,
la raffinatezza, l’estetica, le musiche:
la bellezza di alcune scene
(il percorso iniziale nell’hotel, i viaggi
in auto nella notte, l’inquadratura
degli ombrelli dall’alto durante l’incessante pioggia che bagna

il protagonista di fronte ai suoi carnefici, il combattimento con i tizzoni ardenti) vale la visione.


In aBL non c’è la volontà o la presunzione di innovare alcunché, solo raccontare
nel migliore dei modi una storia,
utilizzando personaggi stereotipati
(il protagonista in bilico tra bene/male,
il boss, la pupa, i vecchi amici che voltano le spalle), colori, musiche, mischiando thriller e melodramma.


Questo è un prodotto largen than life,
molto sopra le righe. Così come alcune recitazioni. Ottime le interpretazioni del boss, dell’ex “collega” che punisce Sun-Woo
e prende il suo posto, del figlio del boss,
del trafficante di armi e dei suoi goffi scagnozzi.
Le loro interpretazioni stonerebbero in un film “serio” come Il Padrino, ma in un contesto simile rendono alla grande.


Il regista non approfondisce più di tanto
le personalità dei protagonisti.
Ma questo non è un punto debole. Perché in fondo non serve.
Sun-Woo è piatto. La sua personalità si evolve man mano che il film
si sviluppa.






All’inizio tutto è in ordine. Tutto fila liscio. Poi c’è il tradimento.
E la conseguente punizione. Infine la vendetta.


Vi sembra banale?


Se pensate di sì, sentite questa. Sapete cosa diceva Sergio Leone
quando parlava del capolavoro Per un pugno di dollari?
Il personaggio interpretato da Clint Eastwood non è altro che una sorta
di Arlecchino, scaltro doppiogiochista al servizio di due padroni.
Non voglio che nessuno dica che aBL è un film banale, vi prego!


Proprio per tornare ai film del nostro compianto regista, non posso non notare piacevoli similitudini: ritroviamo

le inquadrature "di una volta",

i classici primi piani degli amati

spaghetti western, e le musiche che accentuano e sottolineano i duelli.
Per non parlare delle sparatorie.
La scena finale è un piacere per gli occhi, per le orecchie e per il cuore.


Il leggendario duello di “Per un pugno di dollari” vi piaceva?
La cruenta battaglia finale di “Scarface vi piaceva?
Bene, allora vi piacerà pure il finale di questo film.


Qualcuno obietterà a proposito

dei minuti finali, sostenendo come tutto ciò sia poco credibile. Ma cosa importa, in fondo, dico io, la credibilità!?!
Non stiamo parlando di una storia vera, “ispirata a fatti realmente accaduti”, frase spesso abusata.

Questa è una favola, un sogno, un film che deve molto al mondo
dei manga, con un eroe solitario che con le proprie forze deve vedersela contro decine di avversari.


Già, il nostro eroe. Non ho ancora detto molto su di lui. Provvedo subito.


Sun-Woo è impeccabile, distinto, preciso, efficace, capace.
Un tutt’uno con l’hotel che gestisce.
Il compito che il capo gli affida
è in fondo semplice, per uno come lui abituato a ben altre faccende.
Ma di fronte al tradimento della ragazza per la prima volta Sun-Woo deciderà
di non rispettare gli ordini.
Il suo gesto di umanità (come per Tony Montana) sarà la sua rovina.
Ma Sun-Woo è un osso duro, e i suoi numerosi nemici troveranno pane
per i loro denti.


La sua è una metamorfosi: rigido, freddo, impeccabile e distaccato
nelle scene iniziali, nel finale mostra i segni di un’esperienza indelebile,
ferito sia fisicamente sia nell’animo, dopo avere scoperto la bellezza
dell’amore, che non ha mai assaggiato, e la vigliaccheria di alcune persone.






Il film si può dividere in due parti.


La prima ci presenta la vita
del protagonista, la sua freddezza,
la sua estraneità ai sentimenti.
Non è vero che è la parte più debole,
non sono d’accordo con chi critica.
E’ necessaria, perché ci fa capire che Sun-Woo è una macchina, un uomo
di ghiaccio, un uomo che non ha mai provato un sentimento, un uomo che per la prima volta in vita sua, grazie alle lacrime della ragazza, capisce di avere un cuore, e conosce la pietà. Come dice una bella frase nella cover del DVD, per Sun-Woo la ragazza diventerà “il suo pensiero e il suo dolore più dolce”.


In fondo questo film è anche una dolce storia d’amore.
Una storia d’amore un po’ particolare,

per la precisione. Perché Sun-Woo,

dopo avere scoperto il tradimento, minacciato e risparmiato la ragazza,
non la rivedrà mai più.
Un amore quindi solo sussurrato. Del resto non ha nemmeno molto tempo per pensare a lei, troppo preso dalla furia vendicatrice.


E qui parliamo della seconda parte.
Spettacolare è dire poco.
La punizione ricevuta è dura, severa.


Ciononostante il nostro eroe riesce
a sopravvivere, e a mettere in atto
una spietata vendetta.
Non basteranno chiavi inglesi giganti, calci, pugni, coltellate e spari
per fermarlo. Il nostro Sun-Woo è divenuto una macchina di morte.


Una seconda parte molto violenta, feroce, alleggerita ogni tanto
da qualche spruzzata di umorismo grottesco (a mio avviso efficace,
a parere di qualcun altro meno).


Il finale, come detto prima, ricorda Leone e De Palma per la spettacolarità: sanguinario ed esagerato, regala emozioni uniche.
Il nostro eroe, stremato,
rivolge ancora un pensiero alla ragazza, così da farci capire che quei pochi minuti che ha trascorso con lei
sono stati unici, indimenticabili:
per tornare alla parabola del saggio e del discepolo che piange,
Sun-Woo ha capito che una vita d’amore per lui non può rimanere
che un sogno, mentre la realtà è ben altra cosa.


Gli ultimi 20 secondi rimettono però in discussione tutto.
Non vado oltre.
Non mi sento di dirvi di più di quanto non vi abbia già detto,
perchè ognuno può farsi un’idea diversa, la conclusione della storia
può assumere diversi significati a seconda dello spettatore.







Ecco un'altra recensione interessante (firmata Priscilla Caporro):



A Bittersweet Life non lascia lo spettatore deluso semplicemente perché

gli occhi del pubblico vengono soddisfatti da immagini “esaustive”:

il ritmo è incalzante sebbene composto da processi prevedibili, il succedersi

delle sequenze è calibrato con un equilibrio meticoloso, volto a non portare mai

ad un eccessiva saturazione la scena.
Dal racconto razionale di un improvviso cambio di rotta, prende forma un film che senza eccessive pretese riesce a tenere in piedi un lungometraggio in cui

lo sguardo, senza troppi “ma” o “se”, può smarrirsi nell’elegante frastuono malavitoso di un’affascinante Corea del crimine”.



Serve altro?



PS: nel retro del DVD aBL è considerato un “film per tutti”. Bah...
Adesso qualcuno mi deve spiegare come fa questo film ad essere accessibile a tutti mentre
Christine - La macchina infernale
di Carpenter è vietato ai minori di 14 anni.
Pure
300 è un film per tutti...
Vabbè che la Tv ci satura di immagini violente, però…




Voto Finale:
10 e lodeee!!!



Scheda dell'IMDb


lunedì 21 gennaio 2008

Recensione: Cube Zero



Genere: horror fantascientifico
(molto splatter)


Regista: Ernie Barbarash


Canada 2004



Il giovane Eric ha l'incarico di sorvegliare alcune persone tenute prigioniere
in uno strano edifico a forma di cubo
(pieno di trappole mortali).

La sua curiosità lo caccerà nei guai.







Questo film conclude un’ideale “trilogia dei cubi”, iniziata nel 1997
con il film
Cube - Il Cubo e il secondo episodio Hypercube - Cubo 2 (2002), anche se, da quello che ho letto, non è corretto parlare
di
prequel o sequel.
Sono film che hanno in comune solo l’ambientazione, e gran parte
della trama.





Vi consiglio di prendere questa recensione con le molle,
perché non ho visto i primi due episodi, quindi dovrò recensire
questo film come se fosse "unico".


Una sola cosa posso dirvi con certezza: dalle opinioni e giudizi letti
sui vari forum e siti di cinema il primo episodio è ritenuto un gioiello,
e ve lo consiglio.


Devo fare una premessa.
Quando in sala si spengono le luci (è solo una metafora, perché il film
l’ho visto a casa) e appare il marchio
Lions Gate Pictures
le aspettative si impennano.
Film come
Hostel, La casa del Diavolo, la saga di Saw, per fare qualche nome, hanno riacceso l’entusiasmo degli appassionati dell’horror ed hanno avvicinato molte persone (e io sono uno di quelli) al genere
che amiamo.
Confronto ai film citati in precedenza questo prodotto forse non può reggere il paragone, ma resta comunque un film dignitoso.


Rispetto ai due precedenti c’è qualcosa di nuovo.
Abbiamo possibilità di conoscere i guardiani, ovvero coloro
che sorvegliano i prigionieri del cubo.


La partenza, ovvio, è scontata.
Un’ignara vittima, in stato confusionale, è destinata al macello.
Se frugate nei cassettini della memoria, non può non venirvi in mente l’incipit di
Saw 2 (e credo Saw 3
e mi sa pure il quarto).
Pure i colori, la freddezza delle ambientazioni ci riconducono
al nostro caro amico "enigmista".
Però è meglio dire una cosa, tanto per precisare: dato che il primo episodio,
Cube, di Vincenzo Natali, è datato 1997, probabilmente
ha fornito più che uno spunto ai creatori di
Saw.


Poi ci vengono presentati i guardiani: due persone completamente diverse.
Il più anziano, Dodd, è un uomo mediocre, senza personalità;
Eric, il più giovane, molto brillante
ed intelligente, incomincia a chiedersi perché sia lì e quale sia il suo vero scopo.
Il loro compito, dice Dodd, è solo controllare; Eric non si accontenta
e continua a porre domande indiscrete.


Contemporaneamente un gruppetto
di persone si ritrova nel cubo e tentano disperatamene di trovare una via
di fuga, trappole permettendo.
Ma la fiducia reciproca vacilla,
come sempre accade la diffidenza
è massima ed ognuno guarda bene
dal fidarsi dell’altro.
Uno dei messaggi che il film lancia è che forse il vero nemico non risiede nell’altro, ma all’interno di noi stessi…


Le trappole accontenteranno gli appassionati dello splatter.
Corpi sciolti, fatti a pezzi, bruciati, teste che esplodono:
c’è l’imbarazzo della scelta.


Ma non è tanto sul sangue che Cube Zero fa leva.


Il film gioca con lo spettatore;
venendo a mancare molte basi
di elementare logica ci chiediamo:
perché quelle persone sono racchiuse dentro al cubo? Cos’è il cubo?
Chi c’è ai “piani alti”? Il Governo?
Il Pentagono? Gli extraterrestri? Dio?
Perché a chi riesce ad uscire dal cubo viene posta la domanda “
credi in Dio?” e se questi risponde NO
viene arrostito?
Cosa significa il finale (pare che si ricongiunga con il primo film)?
Che fine fanno il nostro protagonista? Dove si trova la stanza nella quale
i due guardiani lavorano?
Dove si trova il bosco (unica ambientazione “esterna”)?


Questo film non dà alcuna risposta, non so se
per un mancanza, forse proprio perché
non vuole fornirne, e lasciare lo spettatore
in balia di mille domande.


Avete letto in molte recensioni precedenti che secondo me non sempre
è necessario fornire le risposte: finali ambigui come quelli di
Audition, C’era un volta in America o Fight Club, tanto per fare
qualche nome, lasciano lo spettatore sbigottito. Ma soddisfatto.


Il problema di questo film,
secondo me, è che espone troppa carne
al fuoco.
Troppe domande, e nessuna risposta. Ma proprio nessuna.
Di “concreto” e lineare in questo film
non c’è niente.


Io non mi sono fatto un’idea ben precisa nemmeno dopo avere letto decine di interessantissime opinioni sulla rete. E non mi sento proprio
uno stupido.

Forse questo (questi tre) film non sono altro che la metafora della vita… forse.



Voto Finale: 6 (?)



Scheda dell'IMDb