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mercoledì 27 agosto 2008

Recensione: Session 9



Genere: horror/thriller

(poco splatter)


Regista: Brad Anderson


Stati Uniti 2001



Gordon Fleming, a capo di una ditta

di bonifica in difficoltà economiche, ottiene l'appalto per lo smantellamento dell'amianto in un manicomio abbandonato. Con una squadra

di quattro operai si addentra nell'inquietante edificio.

Tra bui e terrificanti corridoi i cinque si ritroveranno a fare i conti

con le loro paure più profonde.



Un buon thriller dove si indaga nella psiche dei personaggi

seguendo un sentiero già tracciato da molti classici, e dove la mente,

più che l'occhio, contribuiscono ad aumentare l'adrenalina

dello spettatore.
Il regista Brad Andersonn non ha alcun bisogno di affidarsi

a scene truculente o smembramenti vari, piuttosto utilizza al meglio

la telecamera per esplorare la psiche umana.


FilmUP









Nella recensione di Calvaire avevo detto che si può spaventare

anche senza mostrare violenza e sangue. Session 9 è un altro di quei film che mira allo spavento sfruttando l’atmosfera, il fascino lugubre

di un luogo suggestivo: il manicomio.





Messo in confronto a Calvaire S9 è più realista, meno disturbante

e cattivo. Ma non meno angosciante.


L’impresa di bonifica di cui Gordon Fleming è a capo è in serie difficoltà finanziarie, ma una possibilità di salvezza c’è ancora: un vecchio ospedale psichiatrico va ristrutturato, e Gordon riesce ad aggiudicarsi l’appalto.




Il tempo però stringe, e malgrado il lavoro richieda almeno due settimane Gordon promette che sette giorni basteranno per portarlo a termine. Nell’eseguire la bonifica sarà coadiuvato dal socio Phil e da Hank,

Jeff e Mike.


L’urgenza di finire in tempo, i problemi personali, i rancori reciproci

tra i cinque uomini e l’atmosfera che si respira nel manicomio

porteranno alla tragedia.


Gordon ha seri problemi in famiglia. E’ sempre stato un uomo equilibrato, ma ultimamente non sembra sereno.





Phil è il suo socio, ma non sembra del tutto affidabile.

E poi c’è astio tra lui e Hank: quest’ultimo gli ha rubato la fidanzata.

Mike è il più intelligente del gruppo, ma il suo cervello è sprecato:

avrebbe potuto fare l’avvocato, invece…

Jeff è giovane e inesperto.


L’atmosfera è resa più inquietante dai segreti che nasconde

il vecchio edificio: nello svolgimento dei lavori Mike trova dei nastri

dove sono state registrate le sedute di una paziente affetta da schizofrenia.




Tutto qui.


Effettivamente S9 è un altro di quei film semplici, “poveri”,

con un cast contenuto (il peso dell’opera si regge sulle spalle

di cinque attori), ma di sicuro effetto. Quello che impressiona è il senso

di angoscia che si respira durante la visione del film. Qualcosa di oscuro

si è insinuato tra i nostri cinque uomini? Forse.

In realtà la risposta alle nostre domande è sotto ai nostri occhi.





Il finale lascia aperta qualche domanda. C’è qualche legame

tra le registrazioni e i crimini commessi da (non ve lo dico!)?

Tutta la narrazione del film è “imparziale” (cioè narrata da un punto

di vista “esterno”) oppure è il punto di vista di uno dei protagonisti?

Io opto per la seconda risposta.





S9 è quindi buon film d'atmosfera.

Certo, il ritmo non è il suo forte,

non mancano punti morti, però tirando le somme rimane un prodotto interessante, anche per merito del cast affiatato (grandi Mullan & Caruso).



Voto Finale: 8



Scheda dell'IMDB




martedì 12 agosto 2008

Recensione: Funny Games



Genere: thriller/drammatico

Regista: Michael Haneke


Austria 1997



Ann, George e il loro figlio raggiungono la casa al lago per le vacanze.
L'arrivo di due giovani sconosciuti turberà
la quiete: la famiglia verrà presa in ostaggio
e sottoposta a sadici giochi.









Mentre nelle sale è stato recentemente distribuito il remake
mi è venuta voglia di recuperare l’originale. Vado un po’ controcorrente
ma sono fatto così. Del resto questo film l’avevo tra le mani da un bel pezzo ma il tempo per guardarlo con la dovuta attenzione scarseggiava.


Non conoscevo questo FG. L’avevo scoperto grazie alla (defunta) rivista Horror Mania: in un articolo si parlava della prossima uscita del remake di un film “gioiello”. Come da abitudine mi sono segnato il titolo del film
(in attesa dell’ADSL…).


Ora che l’ho visto posso confermarlo: FG è un film davvero interessante.
Forse non per tutti.
Sinceramente mi ero creato delle aspettative esagerate che sono state
un pochino deluse, ma in fin dei conti questo film mi è piaciuto.
Più avanti approfondiremo il discorso, ora parliamo della trama.


L’inizio è pura routine, quotidianità. Serve a introdurre la (simpatica direi) famiglia formata da Ann, George e dal figlioletto Georgie.
Come da consuetudine i tre si recano nella casa al mare per trascorrere
le vacanze. La tranquillità viene turbata dall’arrivo di un ragazzo, Peter, all’apparenza un “bravo ragazzo”. Chiede alla signora Ann delle uova. Tuttavia il suo comportamento non convince. Il suo modo di fare
così gentile nasconde forse qualcosa? Vedremo più avanti.




Una volta prese le uova che fa Peter? Se ne va? Si. Anzi no.
Torna con un altro ragazzo, Paul. Anche lui dal fare molto ambiguo.
Ann incomincia a preoccuparsi. Per fortuna Gorge torna a casa.
Ann, preoccupata dallo strano atteggiamento dei due ragazzi,
chiede al marito di allontanarli.
Sarà l’inizio dell’incubo per la famigliola.




FG è un film bastardo. Cattivo. Mi ha ricordato un po’ (vado a casaccio) La Casa del Diavolo (la famiglia presa in ostaggio nel motel),
Old Boy
(per il linguaggio forbito dei carcerieri), e ovviamente Saw
(anche se in FG le vittime del "gioco" non meritano la tortura,
non hanno nessuna colpa).




FG gioca con lo spettatore. E’ questo il carattere peculiare del film,
la sua medaglia a due facce. Perché questo è il suo pregio ma anche
il suo limite, che ha diviso in due il pubblico. Più volte i due ragazzi
si rivolgono alla telecamere (e quindi) allo spettatore, per non parlare
della fatidica scena del telecomando (Paul prende il telecomando
e torna indietro nel tempo), che ha ricevuto tanti elogi quante critiche.




Paul e Peter sono l’incarnazione del Male assoluto, tengono il destino
della famiglia in pugno, appaiono invulnerabili, onnipotenti.
All’apparenza sono due "bravi ragazzi" (detto tra noi: che etichetta
di m****). Non c’è una spiegazione concreta alla loro malvagità.
Paul tenta di dare una spiegazione al malessere di Peter, ma cambia
in continuazione versione (prima lo descrive come figlio di una famiglia disastrata, poi come ragazzo viziato-annoiato), prendendo così in giro George che ha ovviamente domandato il perché della loro cattiveria.




Non troveremo risposta alla domanda “perché fanno questo?”.
E forse qui Haneke lancia una critica all’informazione. Si può infatti notare come i tg tendano a etichettare le persone. I colpevoli sono sempre brutti, sporchi e cattivi.
Paul e Peter sono bastardi, questo non si può negare. Ma non sono stupidi. Non provengono da famiglie a pezzi, anzi, l’impressione è proprio
il contrario.
E allora? NON C’E’ RISPOSTA A CIO’. Haneke forse ci vuole dire:
perché cercare di etichettare? Alla psicologia umana non c’è
una spiegazione definitiva. P&P sono cattivi, e basta.
Non c’è nulla da spiegare, da motivare.




Il film raggiunge livelli di cattiveria inauditi, anche senza mostrare direttamente le violenze (ma bastano le urla ad angosciare). E’ un po’ lento, questo è forse un altro limite, in alcuni momenti sembra che il regista
(è un’impressione personale) non sappia dove andare a parare.




FG può contare su un cast all’altezza. Ulrich Muhe (buonanima), la moglie (anche nella vita reale) Susanne Lothar (a mio avviso la migliore recitazione del film), il piccolo Stefan Clapczynski si calano nei panni
della sfortunata famiglia. Eccellenti Arno Frisch e Frank Giering
nei panni dei sadici aguzzini. Affascinanti e allo stesso tempo ripugnanti.




Al di là delle mie perplessità, forse scaturite da aspettative esagerate
(forse mi aspettavo un altro Old Boy?), FG merita sicuramente la visione perché è un prodotto interessante, che evade dai canoni tradizionali
e destabilizza lo spettatore.
Trasmette negatività, pessimismo, senso di impotenza di fronte
alla violenza, alla malvagità che un uomo può mostrare.



Voto Finale: 9



Scheda dell'IMDb



venerdì 8 agosto 2008

Recensione: Distretto 13 - Le Brigate della Morte



Titolo Originale: Assault on Precinct 13


Genere: azione


Regista: John Carpenter


Stati Uniti 1976



Una stazione di polizia in disarmo alla periferia di Los Angeles
è presa d’assedio da una banda di criminali.
Un poliziotto, un galeotto e una donna dovranno respingere l’attacco.







Sinceramente tra i film di Carpenter questo era uno di quelli
che mi interessava di meno. Il vecchio John, è risaputo, è un celebre maestro dell’orrore, e mi chiedevo cosa ci azzeccasse con un action movie.
Qualche recensione sulla rete però mi ha decisamente invogliato a vederlo (una su tutte quella di Deneil). E ho fatto bene.

L’inizio del film si focalizza su diversi personaggi, le cui vicende
si incroceranno nel prosieguo della pellicola.




Conosciamo il neo-tenente Ethan Bishop.
Tre condannati a morte e il poliziotto incaricato di sorvegliarli, Starker.
Il signor Lawson Richards e la figlioletta Kathy.
Le impiegate della stazione di polizia, Leigh e Julie.
Personaggi che non hanno niente in comune, ma che si ritroveranno
ad affrontare fianco a fianco un agguerrito nemico: una banda
di delinquenti (un esercito più che una banda…).




Uno dei tre condannati sta male. E’ necessaria una sosta per curarlo.
Il Distretto 13 è l’ideale: un medico e via. Ma il medico non c’è.
Bisogna aspettare. Ma non c’è tempo per aspettare. L’assedio è scattato.



Perché l’assedio? I componenti della banda sono legati da un rito vodoo, legami di sangue, gente strana (e soprattutto pericolosa!).




Cosa vogliono? Vendetta. All’inizio del film sei componenti della banda vengono uccisi dalla polizia. Ma a gettare benzina sul fuoco è l’omicidio
di un altro componente da parte del signor Richards.
Si dia il caso che la figlia venga brutalmente assassinata senza alcun motivo dalla banda, e così accecato dalla rabbia decide di mettersi sulle loro tracce per la meritata vendetta. Riuscirà a uccidere il killer della figlia ma,
preso dal panico e sotto shock, si rifugerà nella stazione di polizia.


Le strade dei vari personaggi si sono ora incrociate.
Che lo spettacolo abbia inizio.


D13 è una metafora della vita. Non c’è solo il bianco e nero,
ma diverse sfumature. Basti pensare che l’eroe del film è un galeotto
condannato alla pena di morte.




Anche un innocuo padre di famiglia può trasformarsi in uno spietato killer.
I tutori dell’ordine non sono poi così ligi ai propri doveri.


D13 è un film realista. A volte sono i buoni a pagare per i mali del mondo. Basti pensare alla scena dell’omicidio della bambina, la scena
più drammatica (e una delle più efficaci) del film. Di una crudeltà inaudita.




Carpenter dice che quando in ballo c’è la vita le leggi che regolano
la convivenza crollano. Il tenente Bishop infatti decide di liberare (momentaneamente) i pericolosi prigionieri perché senza il loro aiuto
la sconfitta sarebbe certa.




Julie si chiede il perché difendere a tutti i costi il signor Richards
dalla banda assetata di vendetta.


D13 è un film per certi versi “malinconico”: tra Wilson e Leigh si crea un’affinità che però è destinata a accendersi e spegnersi nel giro
di poche ore (“io sono nato fuori tempo”).




D13 è un film pessimista: basti pensare alla scena finale


-> OCCHIO allo SPOILER


-> (Wilson, l’eroe del film, non sfuggirà al suo destino).



D13 è un classico film d’assedio, tema tipico dei film di zombie romeriani. C’è più di una similitudine tra i misteriosi guerriglieri che assediano
la stazione e i morti viventi di Romero.




D13 è più che ispirato a Un dollaro d’onore, di Howard Hawks,
(l’ho visto, ma troppo tempo fa). In effetti sa molto di western,
un western metropolitano (come dice Deneil).




D13 ci regala diversi personaggi interessanti: il poliziotto Starker,
il tenente Bishop, la segretaria-amazzone Leigh, ma lasciatemi applaudire
il mitico “Napoleone” Wilson.




D13 è un film DIVERTENTE, pur non essendo un prodotto di puro intrattenimento. Dico divertente perché non ci sono punti morti
e l’attenzione dello spettatore è sempre sollecitata.


Insomma, D13 è CULT
(e la colonna sonora - a cura di Carpenter - è DA URLO).





Voto Finale: 10 e lode

(forse ho un po’ esagerato, ma non riesco a dargli di meno,
se fossi obiettivo non potrei comunque dare meno di 8)




Scheda dell'IMDb





martedì 5 agosto 2008

Recensione: Calvaire



Genere: horror/thriller
(poco splatter)


Regista: Fabrice Du Welz


Belgio 2004



Marc Stevens è un cantante che si esibisce negli ospizi.
Durante un temporale il suo furgoncino
ha un guasto nel mezzo di un bosco,
così trova rifugio in una locanda.
Bartel, il proprietario del posto,
è un vecchio artista lacerato dall'abbandono della moglie

L’arrivo di Marc destabilizzerà il precario equilibrio psicologico di Bartel.








Perché sei tornata Gloria?


Mi hai amato almeno un po’?


Vero che mi hai amato?


Dimmelo, dimmelo che mi hai amato!


Dillo, dillo!


Più forte, più forte!






E’ possibile riuscire a “disturbare” lo spettatore senza esporre
fiumi di emoglobina? .
Non ci credete? Calvaire è il titolo che fa al caso vostro. E’ un film cupo, disperato, triste, negativo, morboso, suscita fastidio senza essere violento.
Com’è possibile tutto ciò? Scopriamolo insieme.


I minuti iniziali introducono il personaggio di Marc.
E’ un cantante che si guadagna da vivere esibendosi negli ospizi.
E’ l’unica fonte di gioia per quegli anziani soli e abbandonati a sé stessi.
Già da i primi minuti si respira un’aria di tristezza, desolazione, malinconia.




Lo spettacolo è finito, Marc se ne va.
E qui entriamo nel canovaccio dei survival horror.
Il pulmino si guasta nel mezzo di un bosco, Marc chiede aiuto
e trova il soccorso di un ritardato mentale, Boris, che lo accompagna
sino alla locanda di Bartel.




Bartel è un brav’uomo, ma il suo comportamento è ambiguo.
All’apparenza fa di tutto per aiutare Marc, ma… qualcosa non quadra.
Quando scopre che Marc è un artista il suo equilibrio psicologico
(già precario) crolla.




Bartel è un ex-comico, ritiratosi “dalle scene” una volta abbandonato
dalla moglie Gloria. In Marc rivede la compagna. E’ caduto nell’abisso
della follia e non c’è più verso di uscirne.
Per Marc è l’inizio dell’incubo, verrà sottoposto a torture
(fisiche e soprattutto psicologiche) devastanti.




Forse gli abitanti del paese vicino possono accorrere in suo aiuto…
o forse no.




Si dia il caso che nel piccolo borgo non ci sia una donna… e tutti vivano ossessionati dal ricordo di Gloria.




Marc è solo contro tutti.




Mi fermo qui, ho già detto troppo.


Come detto prima questo Calvaire sconvolge lo spettatore
senza mostrare eccessiva violenza, più che altro il punto di forza del film
è la disperazione dei protagonisti che rivestono il ruolo dei “cattivi”,
che ci porta a provare pena (e non antipatia come capita di sovente)
nei loro confronti. I loro comportamenti sono disgustosi:
alcune scene sono angoscianti, morbose e perverse: insomma, cult.




Il plauso va agli attori protagonisti, tra i quali spicca nei panni dello sfigato Marc Laurent Lucas, ma soprattutto il povero vecchio Bartel,
interpretato da Jackie Berroyer, che in molte scene riesce a commuovere.




Nel cast anche il mitico Philippe Nahon (lo straordinario killer
di Alta Tensione), anche lui tragico e commovente nell’ultima scena.




Bellissimo il titolo: quello di Marc è decisamente un calvario, una discesa agli inferi, una feroce tortura (immeritata) dalla quale non può sottrarsi.




Un vero shock questo film belga, feroce e inaspettato.
E' come se la pazzia generale fosse generata dall'assenza
di figure femminili. L'omosessualità non come scelta
ma come induzione.
L'assenza di donne impedisce il compromesso, la ragionevolezza,
fino a sfociare nella bestialità e nella pazzia.
In una scena apparentemente fuori luogo gli abitanti del paese ballano
in un locale sulle note di una canzone inquietante suonata al pianoforte, simbolo di tristezza mascherata da gioia causata, appunto, dall'assenza
di donne. Una danza fuori tempo e che vorrebbe essere liberatoria,
ma che descrive in realtà la tristezza e la desolazione
che circonda l'ambiente.
Il ritmo del film di Fabrice Du Welz è lento, ma gli shock visivi
che arrivano come una bastonata agli occhi dello spettatore
ne fanno un'opera paradossalmente scattante e malata.


Federico Lazzeri (Filmhorror.com)



Parole sante.


Sono sicuro che questo film non accontenterà tutti gli spettatori, girovagando sulla rete ho letto pareri decisamente discordanti,
soprattutto a riguardo della scena più discutibile (la danza nel bar).




Dal tono della mia recensione avrete capito che io sono uno del partito PRO Calvaire.
Pochi film sono riusciti a trasmettermi un senso di disperazione
come questo.



Voto Finale: 9



Scheda dell'IMDb